Ho letto recentemente una raccolta di brevi saggi di J. L. Borges su Dante (“Nove saggi danteschi”, ed. Adlephi) e, immancabilmente, ho pensato all’ormai consolidato filone di pensiero che avvicina lo scrittore argentino ai teorici ante-litteram della rete: uno scrittore, si dice, che tra le vertiginose visioni dei suoi racconti avrebbe colto lo spirito profondo dell’ipertesto, della rete, della connessione infinita delle possibilità dei rimandi.
Tra i tanti riferimenti citati dai vari autori troviamo spesso, e giustamente, i noti “La biblioteca di babele”, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, “Il libro di sabbia” e altri racconti più o meno noti.
E’ vero: c’è in Borges una autentica ossessione per l’infinito, il paradosso, l’esplorazione delle possibilità di universi possibili. Ma credo ci sia una ragione più profonda per ascriverlo nel novero dei pensatori “della rete”, ed è una ragione meno inerente alle sue visioni labirintiche che alla sua peculiare forma narrativa. Borges è uno scrittore estremamente riservato, che nasconde (o rivela) la vita stessa all’interno delle tante figure che compongono il suo universo letterario.
Uno scrittore in “secondo grado”, che vive all’interno della (o delle) tradizioni, che si insinua e si nasconde nei testi stessi, e capace di dare vita ad un’immensa “rete vivente” della memoria che coincide con ciò che del mondo si è detto. L’affinità è quindi più forma che di contenuto: affinità, pertanto, profonda quanto può esserlo l’anima stessa dello scrittore.
Borges non ha teorizzato l’ipertesto: lo ha prrticato come unica forma possiible di ricomposizione metaletteria di un mondo frantumato e non ricomponibile se non nel gioco infinito dei rimandi, della tradizione, del ricordo. Non testi che parlano di labirinti, ma labirinti in se stessi. In Borges il mondo, la sua durezza, il suo opaco “esserci”, non si rivela mai se non in un gioco di specchi, e si ritrova solamente nel gioco delle interpretazioni, delle finzioni appunto. Finzioni infinite quanto gli sguardi di coloro che, il mondo, ci raccontano di averlo guardato davvero.
Borges, insomma, non è stato un teorico ante litteram dell’ipertesto, ma un vero e proprio scrittore ipertestuale, segnato dal destino portare ad unità ricordando, citando, rimandando a ciò che altri hanno detto e ricordato di altri ancora, in un circolo infinito che coincide, alla fine con la sua opera.
Un’opera aperta, immensa, infinita, e perfetta.