Segnatevi questa formula: “internal marketing”. Tradotto in volgare significa, grossomodo, “comunicazione interna” ma, in effetti, è un vero e proprio concetto-ombrello che nasconde, nell’uso consulenziale che ne viene fatto, oggetti assai diversi tra loro, alcuni dei quali non augurerei a nessuno, tantomeno ai colleghi. Possiamo comprendervi cose come:
Intendiamoci, alcune di queste cose, (e forse tutte) sono di per sé buone, ottime, o al limite inoffensive. Ma diventano delle vere bombe a orologeria se le associamo al marketing, almeno a quello a cui siamo stati abituati. Il problema di questo ossimoro concettuale sta qui: di quale marketing stiamo parlando? Pubblicità?
Credetemi: io ho visto l‘internal marketing in azione ed è qualcosa di devastante. Campagne pubblicitarie interne utili solo a far ridere a crepapelle i colleghi. Slogan (oops, volevo dire “claim”…) e “carte valori” costruiti a tavolino e da far digerire “a forza” ad una popolazione sempre più sbalordita.
E’ ovvio: possiamo forse far bere ai nostri clienti quello che vogliamo (ancora per poco…), ma se ci rivolgiamo con gli stessi strumenti ai colleghi (e ci vuole un gran fegato…) il cortocircuito umoristico sarà immediato.
Insomma, si tratta, spesso, di riservare ai dipendenti la stessa sbobba che riserviamo ai nostri clienti. “Nooo”, ci dicono, “qui è moolto diverso, perché qui i colleghi “partecipano”. A si? E come? Nello stesso modo in cui partecipano i nostri clienti? Rispondendo a sondaggi impersonali? Acquistando i nostri prodotti, anche se si tratta di prodotti di comunicazione? Dando valore al brand? Ma questa non è partecipazione, è manipolazione, neanche troppo sottile. Non ci casca nessuno.
E’ chiaro che non tutti la vedono così: in alcuni casi l’interpretazione dell’internal marketing è più umana e condivisibile.