Ascoltando le canzoni di Ivano Fossati (non il primo, il Fossati romantico rokkettaro, ma il Fossati da “La pianta del tè” in poi, il Fossati del misticismo e della ricerca) mi sono spesso chiesto a chi si rivolgesse. Da dove nasce questa sua immensa epica individuale, questo coraggio delle immagini, questa viaggio titanico che ci racconta? Per chi sono queste forme immense, ariose, potenti che si respirano nelle sue canzoni? Dove collocare questa vertigine del sublime, questa umiltà del piccolo, questa sensazione di vastità? Che tragitto ci sta descrivendo? Cosa ci lascia intravedere nei suoi personaggi? Marinai, pionieri, enigmatici poeti, viaggiatori senza meta… Fossati non si rivolge certo all’amore: l’amore è carne, passione, desiderio, piccolezza. Ossessione. E neanche al mondo: il mondo è caos, frenesia, insensatezza, calcolo. Impegno.
No. Fossati non ha in mente nulla di così astratto come il “mondo”, niente di così concreto come “l’amore”. Fossati parla alla vita, e parla della vita stessa, nel suo mistero di essere “vita” invece che “nulla”.
Ma della vita non si può parlare: la vita si può solo viverla. E in questo paradosso risiede tutta la sua poetica ed il suo grande, ambizioso, e fin’anche scandaloso paradosso estetico: simulare, nelle sue immagini, la vita stessa nel suo mero esserci. Il suo camminare è camminare nella vita, il suo viaggio è viaggio nella vita, il suo “mondo” non è ciò che ci circonda ma ciò che, in senso proprio ci “fonda”. Un mistero che si può solo intuire. E il sentimento di questo viaggio, di questa pazza rotta senza meta non può essere che lo stupore.
A Ivano, alla vita, e al suo quieto respirare.