Primavera del ’94. Io lavoravo come operatore di Call Center di una grande società di telecomunicazioni. Stavo con una ragazza bellissima, che poi mi ha spezzato il cuore (colpa mia? Colpa sua? Colpa nostra? Eccetera).
Mi sono laureato, nella primavera del 1994. Ero da solo, nella sala della commissione. 110 e lode. E poi, cappuccino con due colleghe che mi erano venute a trovare a sorpresa. Eccetera.
Nel 1994 qualcuno è sceso in campo. E’ finita la guarra in Yugoslavia. Eccetera.
Cos’altro? ah, si: nella primavera del ’94 hanno massacrato almeno 800.00 persone in Ruanda. Sono stati ammazzati, per lo più, col Machete. Ed erano i vicini di casa a farlo. In 100 giorni. Un record. Provate a immaginare il vostro vicino di casa che sfonda la vostra porta e ammazza voi e la vostra famiglia perché, non so, non siete padani.
Quanti sono 800.000? Più o meno la somma delle persone di 20.000 locali fighetti il venerdì sera. Oppure 10 stadi di calcio. Eccetera.
Insomma centomila assassini in più nel Mondo. Io me ne fregavo, allora, come quasi tutti. Ne parlavo giusto al bar aziendale per far vedere quanto ero informato. Solita catastrofe africana, Caspita! Urka! Eccetera.
Eppure i corpi che galleggiavano nel fiume passavano, eccome, in TV.
Poi, qualche anno fa, ho letto il libro di Philip Gourevitch: “Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie” (Einaudi). E ho capito. E ho pianto (cosa che, invecchiando, mi capita sempre più spesso). E, per quanto è mi è possibile, sono cambiato. Non male per un libro preso a caso solo per il titolo accattivante.
Non voglio dirvi nulla: a dieci anni dal più grande massacro del ‘900 dopo la shoà, leggetevi il libro. E’ qualcosa di sconvolgente. E doveroso. A ulteriore dimostrazione che le parole sono la cosa più impartante che abbiamo noi uomini.
Ah, per la cronaca, si poteva evitare. Grande ONU…
E poi paraltemi di missioni umanitarie. Eccetera.