La comunicazione d’impresa è una di quelle materie di cui nessuno sente l’esigenza e, proprio per questo, tutti ne parlano. Massime del tipo: “in azienda bisogna saper comunicare”, “soltanto chi sa comunicare avrà successo” e via con idiozie simili, che trovate su quei libretti del cavolo che vi affannate a correre a comprare, non significano nulla. Il contenuto semantico di simili asserzioni è vicino allo zero, come di frasi del tipo “la guerra è ingiusta”, “bisogna aiutare le persone più bisognose”, ecc.
Questo avviene quando le affermazioni sono vaghe e generiche. Ognuno può metterci il contenuto che vuole. Ma mentre in democrazia ciò non è poi tanto male perché l’approfondimento delle diverse opinioni dà la nascita allo scontro dialettico, in azienda, dove la democrazia è bandita (la comunicazione sta all’azienda come il manganello sta ai regimi totalitari), questi enunciati rimangono vuoti e sulla loro scarsità di contenuto, sulla loro ambiguità, sulla cattiva fede di chi li enuncia si regge la più bieca gestione del potere.
Parafrasando N.Chomsky possiamo allora dire che in azienda qualsiasi cosa va bene purché sia totalmente inutile. E la comunicazione interna rappresenta da questo punto di vista l’esempio perfetto.
Il comunicatore di professione è un tuttofare, un cicisbeo di corte pronto a piegarsi a ogni richiesta del sovrano. Tanto più è oscena la richiesta, tanto più lui risponde con entusiasmo. Tanto più si tratta di falsificare, inventare la realtà, tanto più lui si esalta. Nello scorso decennio il concetto di “inventare la realtà”, o meglio: “costruire la realtà” è andato molto di moda anche nei corsi formativi per neo-deficienti, oltreché nelle università americane. Però, più che un costruttore di realtà, lui è solo un denigratore della realtà.
Cura i siti Intranet, parla di Web usability, di community, di content manager, ecc. Proviene spesso dalle facoltà umanistiche, dove dice di aver avuto un passato fulgido. Si vanta di essere un bravo scrittore, ma non avendo trovato pubblico fuori, lo cerca dentro. Eccolo allora ergersi sulle barricate, con il petto gonfio al vento e la tastiera in mano, arringare le folle su come si deve scrivere, su come si devono colorare le slide, su come fare i pupazzi (lui, che è il re dei pupazzi, lo sa bene!). Lui oggi ci dice come si deve scrivere in una slide, come si comunica e quando. Insomma: lui pretende di aver riformato il linguaggio. Lui sogna il nuovo esperanto, ma intanto storpia l’italiano e dimentica Manzoni.
Lui dice che oggi si comunica diversamente, che la lingua così com’è non va bene, che il web è diverso, che la gente è diversa, che ci vogliono regole nuove, che bisogna trovare stili nuovi, ecc. Ostenta sicurezza e felicità, ma non ha né l’una né l’altra. La sera si trova spesso solo, piange sommessamente e chiama la mamma. Vorrebbe essere contento, gridare al mondo di essere il più fico, celebrare il suo nuovo linguaggio in locali cult, tastare il culo e le tette delle ragazze più in, dare libero sfogo al suo complesso smisurato di affermazione, ma nella realtà esterna, la sola ad avere esistenza, si scopre un essere virtuale.
In passato quest’uomo, o questa donna, sono stati extraparlamentari, ex sessantottini, ex –ex-ex, post-post moderni, hanno bazzicato Palo Alto e alla fine si trovano oggi soli, in più con un palo basso nel fondo schiena. Ma loro continuano a essere convinti che il futuro è in Arial 12 e che il grassetto può fare tendenza.