In un vecchio saggio il sociologo Erving Goffman traduceva nella metafora della rappresentazione teatrale tutti gli scambi che avvengono quotidianamente tra esseri umani. Attori, scena, comparsa, inganno, dissimulazione, copione…La vita quotidiana come rappresentazione è un saggio magistrale, e un grande esempio di stile narrativo, raro nei testi di sociologia. Alla fine mi resta una domanda: cosa ci rivela più pienamente? Il nostro comportamento? Le nostre parole? Il nostro tentare di esprimerci entro gli angusti vincoli dei codici della nostra cultura? La nostra immediatezza?
Ma cos’è l’immediatezza? E’ forse il mio apparirti quì ed ora, di fronte a te, con le mie parole, la mia espressione? Le mie parole parlate sono forse più sincere, rivelano qualcosa di più su di me, quando le stesse parole possono essere vanificate da un gesto, dal rossore dalla mia faccia, dal mio abbassare gli occhi, da un comportamento non voluto? Dov’è la sincerità, dove la verità, dove lo “strato di roccia” a partire dal quale costruire le nostre forme di espressione?
Le mie parole possono dunque ingannare, io posso ingannare con le parole, così come posso farlo a maggior ragione con la mia scrittura. Una scrittura che nasconderebbe più di quanto riveli. Del resto, si sa, la scrittura, uccide il dialogo. Vanifica la memoria.
Ma la scrittura è veramente racchiudibile in questo orizzonte meramente privativo, possiamo solo definirla come un funambolico gioco di sdoppiamenti, di fraintendimenti, di false piste? La scrittura, con la sua solidità, con la sua totale esteriorità, con il suo permanere, con il suo porsi come atto totalmente intenzionale, premeditato, è dunque più ingannevole, ci maschera e ci dissimula ulteriormente attraverso l’ulteriore mediazione con il linguaggio?
O non è invece qualcosa che attinge direttamente alla nostra anima, senza la mediazione della scena pubblica goffmaniana? Del resto non era lo stesso Stanislawkij, non era Grotowski a considerare il comportamento quotidiano come una mera maschera, una sovrastruttura, che solo l’arte del teatro poteva paradossalmente liberare, facendoci ritrovare la nostra autenticità?
La scrittura, in realtà, non nasconde più di quanto riveli. E non è rivelatrice in virtù di una supporta ”intimità” con se stessi. Anzi, lo è proprio in quanto nello scrivere ci poniamo di fronte a noi stessi, usciamo da noi stessi in uno sdoppiamento, in una proiezione solida, tangibile. E questo sdoppiamento in cui ritroviamo noi stessi si chiama stile. Ovvero qualcosa che non potremo completamente dominare, anzi qualcosa che ci domina costantemente, il codice segreto di noi stessi.
Cesare Pavese, nel “Mestiere di vivere” diceva “Che noi conosciamo uno stile, vuol dire che ci siamo resa nota una parte del nostro mistero,. E che ci siamo vietati di scrivere d’or dinnanzi in questo stile. Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il nostro mistero e allora non sapremo più scrivere, cioè inventare uno stile”.