Mentre faccio riposare il mio dito rotto ascoltando il concerto di Portal e Galliano rifletto sull’ultima provocazione filosofica di Mario Perniola: “Contro la comunicazione” è un agile volumetto, un dotto pamphlet che, senza entrare nel merito della discussione sulla definizione di comunicazione e sul suo “perimetro” la affronta nel suo insieme come “dato di fatto globale” illustrandone alcune caratteristiche che la contraddistinguono come prassi all’interno del mondo della cultura, della polita dell’arte, insomma nella sfera della vita pubblica.
La comunicazione come concetto e prassi universale dunque, astratto e pervasivo e tirannico, in grado di fungere da polo attrattore per ogni tipo di contenuto, capace di mescolare tutto e il contrario di tutto svuotando ogni materia della sua determinatezza. Non a caso la comunicazione viene audacemente accostata alle pratiche ermetiche, in cui il “segreto” viene paradossalmente mascherato per “eccesso di esposizione”. Nella semiosi ermetica ogni cosa viene collegata ad ogni altra tramite rapporti di analogia, continuità e somiglianza: così nella comunicazione, ostile ai confini, alle contrapposizioni, sempre pronta a plasmare e a lasciarsi plasmare, sempre pronta a giustapporre e accostare, senza mai tracciare confini estetici o concettuali.
Ancora più importante l’ipotesi sociologica che vede la comunicazione come prassi di estrema e titanica difesa della “old economy” rispetto alle tendenze che vanno affermandosi come “società cognitiva”: la società dove i saperi, la conoscenza, le idee e l’innovazione rappresentano i veri produttori di valore. L’unica maniera di difendersi, per il vecchio potere “industriale”, è quella di confondere e annacquare questa rivoluzione post-industriale nel caos comunicativo in cui ogni idea, ogni processo di innovazione immateriale ha valore limitato e superficiale.
Fenomeno tipicamente post-moderno, o meglio post-ideologico, la comunicazione non sostiene valori: sempre pronta a “solennizzare le stupidaggini, a trovare significati reconditi nelle bazzecole”, la comunicazione non si oppone ai valori, ma li svuota del loro significato, mettendoli di fatto fuori gioco. Quello che Perniola ci illustra è quindi un mondo claustrofobico, cialtrone, immobile, dove la comunicazione, o meglio “l’aria di comunicazione” si respira ovunque, come in una prigione senza sbarre dominata dalla semiosi ermetica.
Antidoti? L’estetica, intesa come prassi di recupero di alcune determinazioni che la comunicazione lascia fuori gioco, reimmettendo nel circuito della prassi collettiva quotidiana alcuni elementi che possono servire a ridare forza alle azioni e ai pensieri, rimettendo in moto la capacità di incidere veramente nel mondo e di un ripensamento progettuale. La sfida, il disinteresse, l’arguzia, il rito, la profondità: sono alcuni degli ingredienti che un’estetica dell’impegno può usare come antidoti contro l’ambivalente e obliquo mondo della comunicazione.
E’ comunque significativo, a mio parere, che Perniola non abbia inserito il “gioco” tra gli elementi estetici capaci di generare un antidoto alla comunicazione: il gioco infatti, rappresenta una dimensione che, forse, accomuna fin troppo estetica dell’impegno e comunicazione, rendendo di fatto un po’ incerto il confine tracciato tra le due pratiche.
E le nuove tecnologie? E il web? Come si collca in questa impietosa rassegna? Mimesi amplificata della comunicazione mass-mediata o, al contrario, fenomeno legato all’estetica dell’impegno? Perniola non affronta direttamente l’argomento, ma due suggestioni indicano chiaramente la propensione per seconda ipotesi.
La prima è legata al disinteresse, la seconda allo scambio simbolico sottratto all’economia del valore economico. In entrambi i casi, la comunicazione via web (non sto parlando di quel surrogato rapace che fu la “new economy”, ma la comunicazione in rete come scambio generoso di soggetti liberi) si configura come una pratica che si sottrae al mondo plastico e interessato della comunciazione, per restituire una dimensione estetica di puro disinteresse e di scambio simbolico legato ai valori e non alla moneta.
Una comunicazione che “si fa valore”, nel suo prodursi.