Accolgo volentieri l’appello di Nicola (nei commenti di un post precedente) a definire meglio le nozioni di contenuto e relazione in Rete, in modo da capire meglio di cosa stiamo parlando quando parliamo dei vari aspetti della comunicazione nella medesima. Per farlo utilizzerò lo schema inaugurato da R. Jakobson nel 1958, nel saggio “Linguistica e poetica”.
Sono ovvi i limiti dello schema, innanzitutto per la subordinazione del modello alla teoria dell’informazione “classica”, ovvero quella elaborata da Shannon e Weaver. Non abbiamo lo spazio per approfondire i molteplici ripensamenti intervenuti successivamente al modello sintattico-computazionale di Shannon, (prometto che scriverò un post apposito), ma per quello che vogliamo mostrare è sufficiente anche questo tipo di analisi, oggi considerata superata da modelli più sofisticati.
Jakobson, peraltro, aveva in mente una domanda precisa quando scrisse il saggio ovvero: che cos’è la poesia e come possiamo definirla linguisticamente? Tuttavia le suggestioni che in quella sede lancia vanno fortunatamente ben al di là della domanda specifica, lanciando un ponte teorico che ancora oggi possiamo percorrere per capire qualcosa in più del misterioso intreccio tra contenuto e relazione che si sviluppa nella comunicazione, in rete e fuori rete.
Seguendo lo schema di jakobson, a sua volta, come dicevamo, mutuato dalla teoria dell’informazione “classica” (uso sempre le virgolette poiché la teoria dell’informazione si sviluppa in ambito puramente ingengeristico e non si è ancora data una analoga teoria “moderna”, ma solo degli ampliamenti interdisciplinari) seguendo questo schema, dicevamo, in una qualsiasi comunicazione un mittente utilizza un codice più o meno condiviso, per mandare un messaggio ad un destinatario, riferendosi a qualcosa, utilizzando uno specifico canale .
A questi distinti elementi della comunicazione Jakobson fa corrispondre altrettante funzioni linguistiche, ciascuna con un suo scopo preciso, tutte compresenti, in misura maggiore o minore nel medesimo messaggio. La maggiore o minore presenza di ciascuna funzione presente nella “miscela” individua un particolare tipo di comunicazione ben indentificabile, consciuta e riconoscibile (scientifica, poetica, emozionale, operativa,…)
Prendiamo ad esempio la funzione espressiva, ovvero quella orientata al mittente: è costituita dall’insieme degli elementi che qualificano lo stato emotivo di chi parla (o comunica). Usando una terminologia successiva, essa è costituita dagli elementi non verbali, paraverbali e, nel linguaggio, dalle interiezioni e simili. Dal punto di vista della teoria classica dell’informazione questi elementi non esistono o costituiscono comunque un problema: nella pratica linguistica quotidiana sono invece parte integrante dei messaggi, ne colorano il senso e ne arricchiscono il valore informativo.
La funzione denotativa è quella più classicamente studiata, e naturalmente, quella maggiormente presente nel linguaggio scientifico (per questo si tende a dire che il linguaggio della scienza è chiaro e obiettivo, confondendo a volte logica e retorica). Quando dico “sono stanco”, la mia stanchezza è il contenuto denotativo, e le mie espressioni di stanchezza sono pertinenza della funzione emotiva presente comunque nel messaggio. Per inciso, erano queste il tipo di espressioni studiate da Aristotele e da Kant, e proprio per questo la loro teoria della mente risulta oggi alquanto grezza).
Più interessante la funzione fatica, ovvero tutti gli elementi della comunicazione tesi a stabilire la presenza del “contatto” tra gli interlocutori. Ad esempio, il “pronto” al telefono e così tutte le espressioni che riguardano la relazione in quel momento tra mittente e destinatario. Notiamo di sfuggita come la funzione fatica agisca anche come pura affermazione di presenza di se stessi in un contesto (“eccomi”, “ci sono”, “presente”, ecc).
Ancora, la funzione conativa, riguarda gli aspetti pragmatici della comunicazione, ovvero quelle espressioni che agiscono sul destinatario per spingerlo ad una’azione. Rientrano in questo schema, ad esempio, tutti gli imperativi, i comandi, ecc…
Ok, fermiamoci qui. Tra le tante cose che si possono rilevare in questo schema, vale la pena di citarne almeno una, ovvero che la nozione di valore di verità di un enunciato può essere applicate quasi esclusivamente alla parte governata dalla funzione denotativa (il “qualcosa di cui si parla”), oppure a quella metalinguistica. Le altre funzioni non sono sottoposte a questo principio, con buona pace dei logici e filosofi del linguaggio primo-wiggensteniani. Bene, perché questo schema ci dice qualcosa su contenuto e relazione in rete? In primo luogo perché scopriamo che la relazione si annida anche nel più banale atto denotativo, anche se magari ben nascosta sotto il contenuto espresso.
In secondo luogo, ed è su questo che vorrei soffermarmi, perché all’interno della comunicazione in rete si è assistito ad un curioso paradosso, non prevedibile tenendo fermo lo schema Shannon-Jacobson. In rete si comunica attraverso un computer. Non siamo in presenza che di noi stessi (e a volte neanche quella, troppo concentrati sullo schermo per riflettere). Questo elemento di contesto, che taglia fuori d’ufficio la possibilità di sbilanciarci sulla funzione espressiva o fatica o conativa, sembrerebbe imporre un utilizzo meramente denotativo del mezzo. Del resto le origini del web fanno riferimento proprio a questo utilizzo, dal momento che le intenzioni inziali dei pionieri del CERN erano di scambiarsi dati scientifici.
E qui sta il punto. Perché, invece che limitarsi a scambiarsi dati scientifici e simili – facendo leva sulla componente denotativa dei messaggi – le persone, in rete, hanno cominciato a fare l’opposto, facendo di tutto per portare in primo piano le funzioni meno adatte al tipo di mezzo, ovvero quelle espressiva, fatica, conativa. Possiamo parlare, a questo proposito, degli studi sulle interiezioni in chat, che cominciano ad fiorire anche in Ita
lia, degli indispensabili emoticons oppure possiamo semplicemente osservare la pratica comunicativa nei commenti dei blog dei ragazzi, in cui la maggior parte dei messaggi sono del tipo: “ci sono”, “ci sei anche tu?”, “eccomi”. Funzione fatica.
Insomma, sembra che le funzioni “relazionali” abbiano a poco a poco scavalcato, in rete, la funzione “denotativa”, relegata agli articoli scientifici e giornalistici.
Si ha un bel dire (e l’ho detto spesso anche io…) che “in rete contano solo i contenuti” (formula alquanto vaga e molto potente, che comunque non ha ancora esaurito, a mio parere ,il suo indubbio valore di doccia fredda per i rampanti speculatori della rete). In rete i contenuti sono avvolti come in una calda coperta delle altre funzioni del linguaggio. I contenuti sono relazioni e le relazioni sono contenuti. Questo ci fa capire, a mio parere, due cose:
1) Quando fuori dalla rete, comunichiamo, facciamo una lavoro ben più complesso che calcolare il valore di verità di un enunciato. Lavoro complesso ed irrinunciabile, visto che tale lavoro viene compiuto, a prezzo di difficoltà indubbiamente maggiori, anche in rete.
2) La comunicazione in rete ci ha fatto capire come la funzione denotativa del linguaggio sia povera, e di come sia arrivato il momento di prendere consapevolezza in tutti i campi, dalla progettazione igegneristica, al marketing aziendale alla comunicazione della scienza, che se vogliamo comunicare dobbiamo guardare a tutte le funzioni in gioco nel nostro linguaggio, senza trincerarci dietro muri divisori (come quello tra contenuto e relazione) sempre più sgretolati.
Cos’è allora la relazione in rete? Cos’è il contenuto? La relazione è, a mio parere, al di là di quanto fa aprtamente ed esplicitamente apello alle funzioni conativa, fatica ed espessiva, tutto quanto, posto in maniera denotativa, si riferisce tuttavia ad una ipotetica comunità di lettori di cui, in qualche maniera, tiene conto. Mi rendo conto che l’argomento è stato appena sfiorato: ci ritorneremo.
J .