Quando ero giovane facevo spesso l’autostop. In realtà, meno per un incontenibile spirito di emulazione kerouachiana che per risolvere il più prosaico problema di spostarmi dalla periferia del nulla, nella quale vivevo, verso il centro del nulla, nel quale mi toccava andare.
Non era troppo difficile: in quel lembo di frettolosa, malinconica e cementata Padania c’era sempre qualche camionista con l’animo da gentiluomo, o qualche gentiluomo con l’animo da camionista, disposto a dare una mano a un ragazzotto magro e un po’ sgarrupato; una figura, la mia, forse un po’ patetica, sicuramente inoffensiva.
E poi c’era sempre la promessa di una qualche forma di conversazione, per quanto ciò fosse possibile in tali condizioni.
Una volta venni raccolto da un uomo che viaggiava su di una modesta utilitaria. Un tipo dall’approccio rapido e automatico, un signore oltre la quarantina ben piantato nel corpo e nell’anima; un po’ arrogante nei modi, ma comunque di cuore, come solo certi “lumbard” sanno essere a volte.
– Che fai nella vita? – Mi chiese.
– Studio Filosofia – Risposi timidamente.
– Ah, io odio i filosofi! – Punto.
Non era una dichiarazione di guerra, lo avevo capito (o, quantomeno, oscuramente intuito): era, piuttosto, la continuazione di un dialogo con se stesso che, si capiva, andava avanti da tempo. Insomma, il signore era più filosofo di quanto fosse disposto ad ammettere.
In quell’occasione rimasi zitto, non tanto per una forma di strategica laconicità, non per una volontà di pormi, comunque, in ascolto dell’altro. Queste sono cose che avrei appreso e praticato solo in seguito; a quel tempo, la mia consapevolezza di che cosa significasse comunicare si limitava ad una forma animale di mera reazione agli stimoli esterni.
Ma in quel caso non ebbi alcuna reazione apparente. Rimasi così, interdetto e un po’ stupito da tanta serafica semplicità. Ero un ragazzetto. Mentre lui era un sano, operativo e perfettamente integrato “lumbard”, con l’animo del gentiluomo-camionista.
Che avrei potuto dire, allora? Nulla. Nulla avevo da dire, se non rimarcare, con il mio silenzio, un insanabile baratro.
Lui ci rimase male, però: in fondo, si capiva, avrebbe voluto che replicassi, che gli ponessi la domanda di prammatica: e perché mai? E credo anche che avrebbe voluto, in fondo in fondo, che provassi a convincerlo che no, odiare i filosofi era sbagliato, che esisteva un motivo valido per tutti, anche per lui che faticava e “tirava la carretta”, per studiare la filosofia.
Io, ora come allora, capivo profondamente la sua posizione: per lui, semplicemente, la filosofia non aveva senso. Lavorava, viaggiava, faticava, aveva una famiglia, aveva sempre fatto del suo meglio e continuava a cercare di tirare avanti meglio che poteva. Che se ne sarebbe potuto fare di riflessioni sull’io, la coscienza, il pensiero pensante, la deiezione, la dialettica dell’essere, il rapporto tra mutamento e identità? insomma, condividevo in parte il suo odio, il che equivale a dire che odiavo me stesso, cosa non difficile per un ragazzo di vent’anni.
Rimase quindi in sospeso la domanda: a che cosa serve la filosofia? E perché dovremmo amarla? Oggi, dopo 19 anni, sento di essere pronto a rispondergli. E non perché sia diventato più acuto e preparato, ma perché sono successe, nel modo del lavoro, alcune cose che mi vengono in aiuto.
Dunque, la mia idea è che la filosofia costituisca, oggi, l’ unico vero passaporto cognitivo per la nostra sopravvivenza. E non sto parlando di una sorta di sopravvivenza spirituale di stampo umanistico: queste sarebbero osservazioni fuori luogo, fuori moda oltre che poco convincenti.
No, sto parlando della sopravvivenza nel mondo del lavoro post-fordista di oggi. Sto parlando, in omaggio al mio gentiluomo-camionista, della nostra sopravvivenza come prestatori d’opera. Il fatto ha naturalmente qualche cosa a che vedere con l’ossessione, ribadita da più parti, per l’esercizio del “sapere pratico”, ossessione testimoniata anche dal mio occasionale interlocutore di allora.
Ora, Il fatto è semplicemente questo: non esiste più, oggi, alcuna “pratica” lavorativa che non sia soggetta ad una obsolescenza più rapida della nostra capacità di aggiornamento. In un mondo nel quale anche il parrucchiere è costretto ad aggiornarsi sulle nuove tecnologie tricologiche per non essere fuori dal mercato, nel quale il gestore di lavanderia è costretto ad integrare il suo sapere con sofisticate tecniche di marketing one-to-one e nei quale le “assistenti alla poltrona” dei dentisti riescono a lavorare solo se conoscono i rudimenti della comunicazione interpersonale, il concetto di “pratica”, cavallo di battaglia di quanti vorrebbero una preparazione più orientata concretamente al lavoro, si trasforma in un inquietante paradosso.
La pura e semplice “trasmissione di pratiche specialistiche” rappresenta oggi solamente la via più facile per trasformarsi, nel giro di una o due stagioni, da giovane promessa a vecchio rincoglionito. E non servirà a nulla pensare che la nostra pratica sia talmente specializzata – e rara – che ci tutelerà. “Specializzazione” equivale da sempre a “fine dell’evoluzione”.
Per non parlare del fatto che, naturalmente, arriverà un nuovo applicativo software nel quale basterà “flaggare” un parametro per svolgere automaticamente la nostra “preziosa” attività specialistica (pensate, che so, alle versioni più recenti di Dreamweaver che integrano componenti ASP, o alle opzioni di Photoshop che consentono di trattare un’immagine in modo “cubista” o “divisionista”).
Tutte le pratiche, una volta sedimentate, si possono prima o poi standardizzare, e rendere altrettante “opzioni” di un adeguato software.
Scommetto che avete avuto tutti un brivido lungo la schiena, vero?
Eppure c’è qualche cosa che ancora conserva una sua tenuta, qualche cosa il cui esercizio sfugge ad ogni standardizzazione possibile, una pratica la cui genericità e astrattezza evita di impantanarsi nelle secche dell’involuzione delle pratiche, di ogni nostra pratica. Questo qualche cosa si chiama pensiero. Sembra banale, ma ciò che ci consente di dare il “valore aggiunto” che il mercato oggi ci chiede non è altro che l’esercizio costante, affilato, originale e coraggioso della nostra “pratica di pensiero”. E qual è la disciplina che consente di tenere in costante esercizio le facoltà e gli organi deputati alla produzione di idee?
Avete capito.
Ricordate Pico della Mirandola e la sua orazione sulla dignità dell’uomo? Si parlava dell’uomo e del suo destino di eterno costruttore del suo mondo della vita. Oggi, dopo 500 anni, abbiamo finalmente la consolante e terribile consapevolezza – tangibile – di questa nostra “mobilità”, di questa intrinseca plasticità, di questa nostra dislocazione permanente. Consapevolezza consolente, perché sappiamo che nulla sarà mai deciso per sempre. E consapevolezza terribile, perché il successo di ogni carta che ci giocheremo dipenderà da noi.
Ho passato un anno studiando la “Critica della ragion pura” di Kant, e altri due studiando la “Fenomenologia della spirito” di Hegel. Ho studiato logica formale, e discusso animatamente sul mondo-della-vita. Ho passato intere settimane, mesi, anni, seduto alla mia scrivania in un esercizio di pensiero astratto al limite delle mie possibilità, devo ammetterlo. A che cosa è servito tutto questo? La risposta è: non è servito a nulla. Perché questo esercizio non è, né sarà mai, servo di nulla. Ed è proprio per questo che potrà governare facilmente tutti i miei aggiornamenti pratici da qui ai prossimi anni. E so già che saranno tanti.
E’ proprio l’astrattezza di questa preparazione, il suo sovumano tentativo di arrivare al limite del pensiero stesso, che consente di applicarla poi a qualsiasi pratica “illuminandola” finalmente della luce di un pensiero vivo.
Non so che fine abbia fatto il mio gentiluomo-camionista, se abbia conservato la sua opinione sui filosofi e, cosa più importante, se abbia conservato il suo posto di lavoro (cosa che gli auguro di cuore).
Oggi ho solo voluto replicare, nella maniera più onesta e affettuosa di cui mi sento capace, a ciò che mi disse in quella nebbiosa mattina di 19 anni fa.