Una volta finito il libro di Domenico Fiormonte “Scrittura e filologia nell’età digitale” l’impressione è di disorientamento. Una rassegna vastissima, una bibliografia sterminata ci accompagna in un percorso storico e teorico, come si diceva una volta “di ampio respiro”. Nulla, o quasi nulla viene tralasciato: la filologia, la critica letteraria, gli studi sui media, lo strutturalismo, il post-strutturalismo, gli studi sulla scrittura, le scienze cognitive, la web usability, i linguaggi di marcatura, la teoria del romanzo, la semiotica, l’ermeneutica, l’etica hacker e molto altro.
Il tutto per raccontare una storia dei media elettronici un po’ diversa dalla vulgata tradizionale, una storia contrassegnata dalla ricerca genealogica, dalla scoperta delle affinità, dal sogno di una continuità sostanziale della scienza e soprattutto della pratica dei testi che non manca di riservare sorprese.
Genalogie non banali
Gli ipertesti narrativi richiamano gli assemblaggi futuristi, i web designer sono gli eredi dei copisti calligrafi del rinascimento, la scomparsa dell’autore è un fatto vecchio e va retrodatata quantomeno alla comparsa del primo word processor, l’ipertestualità era già stata pensata e praticata da Genette, Bachtin, Foucault e dal romanzo moderno europeo.
L’interattività? Basta pensare alle avanguardie artistiche o al teatro di Grotowski. L’apertura del testo? Era già nel romanzo combinatorio di Quenau, di Butor, di Perec. L’idea stessa del WWW era già stata tratteggiata dai critici della letteratura nell’idea di semiosi illimitata. Per non parlare della multimedialità (già presente in Mallarmè o Zavattini) o delle nuove discipline come la web usability e il web writing, eredi diretti della retorica antica e del design industriale.
Smontare l’apocalisse
Si potrebbe continuare, ma credo che il senso sia chiaro: il tentativo di Fiormonte, tentativo perseguito con tutti i mezzi teorici (a dire il vero assai vasti) a sua disposizione, è quello di tracciare una linea continua che depotenzi, almeno in parte, la portata del nuovo “paradigma” elettronico e lo riporti nell’alveo della produzione culturale che appartiene alla tradizione. O quantomeno di mostrare come il paradigma digitale porti allo scoperto tensioni e problemi già presenti nel mondo della produzione cartacea tradizionale.
I motivi di questa operazione sono in parte espliciti e in parte intuibili, e in ogni caso sono condivisibili: costringere gli umanisti tradizionali a guardare alle nuove tecnologie con fiducia, provare a gettare un ponte tra campi teorici all’apparenza estranei, spingere le scienze legate alla filologia a confrontarsi serenamente con le nuove possibilità, offrire una sorta di genealogia che faccia anche da cassetta degli attrezzi per coloro che vogliono lavorare in questo campo.
Tuttavia, come spesso accade, i tentativi eccessivamente totalizzanti rischiano di portarsi dietro alcune forzature, specifici fraintendimenti e qualche necessaria omissione, e per questo vorrei provare a fare alcune osservazioni, dettate meno da spirito di polemica che dalla sincera volontà di mettere un po’ d’ordine nella massa di suggestioni che il libro generosamente propone. Sono osservazioni modeste, solo abbozzi di osservazioni, ma mi piacerebbe comunque condividerle con voi.
Prima osservazione: ogni innovatore produce i suoi precursori
Questo fatto non è, come noto, una cosa nuova: come osservava Borges, è solo perché è esistito un Kafka che possiamo andare a caccia di figure “kafkiane” nella storia della letteratura. Ed è ovvio che quello che sta succedendo nell’editoria elettronica e nella scrittura in rete stimola in modo evidente la “caccia ai precursori”, che solo in virtù del nuovo “paradigma” trovano, diciamo così nuova cittadinanza teorica e nuova legittimazione nelle pratiche (discorsive e non). Può darsi che oggi molti neo-scrittori professionali o comunicatori in rete si avvicinino a Quintiliano, Aristotele, Munari, al post strutturalismo, alla retorica nuova e vecchia e al Bauhaus. Ma questo avvicinamento può avvenire solo perché un nuovo paradigma, o quantomeno un nuovo insieme di scopi e pratiche discorsive portano allo scoperto una serie di attrezzi che giacevano da anni nel dimenticatoio. E a volte si può anche usare un apriscatole per aprire una bottiglia. Con tutto il rispetto.
Possiamo ovviamente, considerare ogni disciplina che si proponga come nuova o ogni pratica che affermi di aprire nuovi campi di studio con gli occhi e il linguaggio dei campi disciplinari già collaudati e preesistenti. Possiamo dire “l’usabilità non altro che il design industriale in una nuova variante”, oppure “la scrittura per il web non è altro che l’antica retorica subdolamente reintrodotta all’interno dei media digitali”, oppure, volendo essere più audaci e disinvolti “la multimedialità l’ha inventata Zavattini”, o “il WWW non è niente altro che il sogno della semiosi illimitata di Calvino” e via dicendo.
Ma dobbiamo chiederci quel è il prezzo teorico da pagare. E io ne vedo almeno due, entrambi abbastanza salati: il primo (potremmo chiamarlo di “perdita ontologica”) è quello di perdere, in quest’opera di “traduzione” di un linguaggio “nuovo” in uno vecchio, il campo stesso dei fenomeni che si pretende di descrivere. Può darsi che concetti come “affordance” o “mapping culturale”, propri della web usability, siano, alla fin fine traducibili (ma resa da vedere l’autorevolezza del “dizionario” utilizzato) nel linguaggio del design industriale, ma se poi non siamo più in grado di rendere conto dell’insieme di pratiche che questi linguaggio specifici organizzano e disciplinano abbiamo perso il bambino con l’acqua sporca.
Se volessimo prendere sul serio questo programma e non considerarlo come una legittima serie di evocazioni metaforiche, dovremmo dire che traducendo il linguaggio delle nuove discipline in quello già ben conosciuto delle teorie tradizionali e collaudate rischiamo di perdere di vista i fenomeni stessi che il linguaggio descriveva. E non è una questione di mode terminologiche.
Il secondo prezzo da pagare è quello di un a volte inaccettabile idealismo, ovvero di considerare le teorie come meri algoritmi che mettono in gioco e relazione una serie di concetti e di non considerare le pratiche sociali che queste teorie sorreggono. E’ ovvio che i consigli di “buon web writing” hanno senso solo se teniamo in considerazione il medium come oggetto tecnologico, gli usi che di questo medium vengono fatti da ampie fasce di popolazione, la “retorica” che si è sviluppata su questo medium negli anni, il tipo di “autori” che lo utilizzano e i loro scopi, eccetera. E allora vediamo che non avrebbe senso dire ad un giovane “impara le regole dell’inventio, della dispositio e dell’elocutio” e vai tranquillo. Perché il giovane in questione non deve difendersi in tribunale o fare discorsi epidittici (salvo forse il giorno della tesi di laurea).
A questi prezzi aggiungerei un pericolo che sempre grava su qualunque operazione “a ritroso”, ovvero di introdurre una sorta di arbitrarietà nei riferimenti. Perché mai gli “antenati” segreti dell’usabilità sarebbero la retorica antica e l’industial design e non, poniamo, la psicologia della Gestalt o l’architettura veneziana del ‘700? E poi perché mai la retorica di Quintiliano e non quella di Aristotele o di Port Royal? Perché l’archeologia dell’ipertesto andrebbe cercata negli assemblaggi futuristi e non, poniamo, nella deriva situazionista? Perché l’idea del WWW starebbe nell’idea di semiosi illimitata e non nel sincretismo mistico rinascimentale?
E’ ovvio che questa vaghezza, questa libera carrellata di associazioni libere, diventano un “pericolo” solo quando si vogliano prendere sul serio e non, ovviamente, quando la ricerca genealogica abbia una funzione, diciamo così ironica, o quando le si attribuisca il compito di illuminare metaforicamente un campo teorico che presenti oscurità irrisolvibili al suo interno.
Terza osservazione: come la mettiamo con mia cuginetta di 13 anni?
Perché una teoria possa essere considerata un dispositivo semiotico efficace dovrebbe essere in grado di spiegare una massa maggiore di fenomeni delle teorie che l’hanno preceduta. In caso contrario diventa una teoria regressiva e va abbandonata. Ora, considerare la testualità, tradizionale ed elettronica, online e offline, come un insieme di pratiche teoriche e discorsive all’interno di un continuum tutto sommato neutrale può forse tranquillizzare molti della “vecchia guardia”, ma lascia irrisolti una marea di problemi. Perché se è vero che mia cuginetta di 13 anni scrive mail, chatta, partecipa ai MUD e cambia i tag HTML dei testi con la stessa facilità con la quale io mi stappo una birra tutto questo non può essere fatto passare come una semplice variante tra le mille varianti della storia del testo scritto. Io sono ovviamente d’accordo con le intenzioni “tranquillizzati” di Fiormonte e condivido parte delle sue osservazioni sulla “continuità” tra vecchi e nuovi media. Ma non posso neanche fare finta di non vedere che siamo seduti su di una polveriera.
E quindi? Forse dobbiamo ammettere, in maniera aperta, che uno studio puro e semplice, per così dire “anestetizzato” della testualità, oggi, non ha alcun senso, perché non permette di cogliere gli evidenti aspetti di discontinuità che caratterizzano il modo di trattare i testi di milioni di persone. Va detto che questo appello all’interdisciplinarietà è fatto proprio dallo stesso Fiormonte e tutta la sua ricerca ne è, del resto, un’eloquente testimonianza. Ma l’impressione, forse non voluta, è quella di farci capire che non è dalla filologia che arriverà una teoria capace di farci capire qualche cosa.
Continueremo, come sempre, ad “abitare la rete”, magari più consapevoli dei debiti che abbiamo con Valery, Bachtin, il Futurismo, Genette, Foucalult, Barthes, Derrida, il teatro di Grotowski. Ma conservando gli stessi dubbi e le stesse ansie sul nostro lavoro di comunicatori in Rete.