Possiamo metterla come vogliamo, ma resta il fatto che il libro di Giuseppina Pellegrino: Il cantiere e la bussola. Le reti intranet tra innovazione e routine è la descrizione di un fallimento.
Proviamo a vedere perché: partendo dall’idea, mutuata da Bijker e dal modello SCOT, che “il puramente teconolgico in quanto tale non esiste” e che ogni nuova tecnologie è in qualche modo “costruita” socialmente da una comunità di utilizzatori/interpreti, la Pellegrino prova a osservare quali fattori sociali entrino in gioco nell’utilizzo/rifiuto di una intranet, studiando il caso di un’azienda italiana e di una britannica..
In questa analisi entrano in gioco i concetti di “gruppi sociali rilevanti” (ovvero le “tribù” di utilizzatori che assegnano alcuni specifici valori alla specifica tecnologia), flessibilità interpretativa (ovvero la capacità della tecnologia di venire significata in vari modi a seconda dei gruppi nei quali viene co-costruita. Pensiamo, ad esempio al telefono, che non ha oggi il significato che ha suo tempo gli assegnarono i progettisti), quadro tecnologico (ovvero scopi, teorie, pratiche d’uso, routine consolidate degli utenti, pratiche di test, ecc). La tecnologia, ogni tecnologia, è insomma il risultato di una processo di stabilizzazione e negoziazione tra gruppi sociali.
E qui casca l’asino. Perché, ovviamente, una intranet entra a far parte di un’organizzazione specifica, con i suoi gruppi sociali rilevanti, un suo quadro tecnologico. Inoltre intranet, come tutte le tecnologie web, è “plastica” per definizione, e quindi aperta ad una flessibilità interpretativa pressoché infinita.
Ed ecco che, in un contesto assolutamente non deterministico (dove per “deterministico” intendiamo: creo la intranet, accendo il bottone e tutto funziona a meraviglia) si consumano gli errori (e gli orrori) che la Pellegrino bene descrive nel corso della sua analisi etnografica. (E ovvio che per l’autrice questi non sono “errori”: sono solo risposte che la tribù dà ad uno specifico evento tecnologico).
Primo errore: la lotta delle definizioni. I casi descritti dalla Pellegrino sono significativi: nel momento in cui il management (gruppo sociale arci-rilevante) le assegna alla intranet in significato/ ruolo di vetrina promozionale, questo viene vissuto come disturbante dalla popolazione aziendale, specialmente per coloro che la vedono invece come punto di accesso al nuovo e alle conoscenze
In questo contesto le visioni dei diversi gruppi sociali rilevanti, non analizzate, restano marginali e non entrano in gioco nella progettazione
Secondo errore: mancato coinvolgimento. Gli spazi sono progettati in modo da veicolare una particolare visione, ma questa visione non è condivisa degli utilizzatori. E se c’è una eccessiva distanza tra produttori e fruitori ci sarà anche tra reciproche rappresentazioni dell’artefatto. La Pellegrino descrive bene, nelle discussioni del gruppo di progetto, la paura e lo scetticismo verso un’eccessiva apertura della intranet alle reali esigenze della popolazione aziendale. Valga per tutti questo dialogo:
– “E se si interpellassero le persone?”
– “E che fai un referendum?” (scettica)
Risultato: non uso.
Terzo errore: riduzione della flessibilità e divieto di “derive. Se una tecnologia (e tantopiù una tecnologia web) è “platica” nel senso che è aperta a possibili interpretazioni, che diventano altrettante “incorporazioni” (un gruppo prende un artefatto e lo inserisce in modo nuovo in una sua routine), la cosa peggiore che puoi fare è vietare queste “derive” in nome di un “utilizzo corretto”, che è corretto solo nella testa del progettista. In qusta strada la intranet viene vista come un ennesimo esercizio di potere dei gruppi elitari dell’azienda (manager, tecnici…)
Quarto errore: effetto “tabula rasa”: una intranet si inserisce in un tessuto di pratiche e tecnologie preesistensti (mail corridoi, videoconferenze, telefonate, ecc). Pratiche e “generi comunicativi pre-esistenti si rivelano un fattore di resistenza al cambiamento. Se non si prevede un’integrazione tra queste pratiche il risultato è che verranno messe in atto “strategie di aggiramento”. E’ quello che è successo nei casi studiati
Quinto errore: community di plastica. Non basta affidare alla retorica della intranet e della comunicazione in rete il compito di creare/consolidare community professionali. Esiste un terreno di pratiche e di comunità di pratiche preesistenti delle quali tenere conto nella progettazione. Le comunità esistono già nella reale vita dell’organizzazione: la tecnologia deve cercare di saldare questi legami e non crearne ex novo con il solo ausilio dei supporti tecnologici e del vincolo gerarchico. Inoltre, questo approccio sconta il prezzo di una rappresentazione troppo riduttiva della conoscenza, come sapere perfettamente discretizzabile ed esplicitabile. In questo senso è votata al fallimento (non uso, aggiramento)
Che cosa può dire questo studio etnografico a noi, poveri specialisti/consulenti/formatori che lottano tutti i gironi per affermare le possibilità di intranet contro le resistenze culturali e le vecchie (cattive) abitudini manageriali? Credo che possa dirci molto.
Le aziende hanno una storia, delle regole scritte e non scritte. Le persone hanno dei legami, delle abitudini, delle rappresentazioni condivise dei problemi. I gruppi si costituiscono (e difendono la loro identità) secondo logiche che resistono alla più pervasiva e dirompente tecnologia. Dobbiamo imparare ad ascoltare queste voci, a farci carico delle loro specifiche interpretazioni, a negoziare i significati.
E dobbiamo farlo “prima” di fare qualsiasi scelta tecnologica. Senza questa operazione ogni artefatto tecnologico, intranet compresa, assomiglierà al monolite di “2001: odissea nello spazio.”