Dunque, parliamo del bene e del male. O meglio, parliamo bel buono e del cattivo. Siamo tutti d’accordo che il bene è buono e il male è cattivo, e che dovremmo desiderare il bene e respingere il male. E che dovremmo essere buoni e non essere cattivi, e che dovremmo coltivare la nostra parte buona e fare appassire la nostra parte cattiva. Ma non è così semplice.
In un recente film di Lars von Trier, “Il grande capo“, un manager di una società informatica inventa un personaggio fittizio al quale vengono attribuite le decisioni scomode dell’azienda. Fusioni, licenziamenti, cambiamenti organizzativi, nuove regole e divieti vengono fatti cadere sulle spalle di questa figura fittizia. In questo modo il vero artefice delle decisioni può conservare, agli occhi degli altri, la sua immagine di bonaccione.
Il tema non è nuovo in Lars von Trier: se ci pensiamo, anche Dogville era costruito intorno a questo meccanismo. Una ragazza vuole sfuggire al suo destino (e a suo padre) e subisce le peggiori vessazioni pur di conservare la sua immagine buona. Fino a che, dopo avere conosciuto la cattiveria degli altri, è costretta a chiamare in soccorso suo padre (o la sua parte cattiva) per fare giustizia.
Lars von Trier non è ovviamente l’unico ad aver affrontato il tema del bene e del male, della lotta contro la propria ambivalenza per scacciare le parti inaccettabili di sé e proiettarle su qualcun altro. In ambito letterario l’antecedente più vicino che conosco è certamente “L’anima buona di Sezuan” di Bertold Brecht. Anche in quel caso una brava ragazza deve inventare la figura di un fratello cattivo per potersi farsi pagare dai creditori e non finire in miseria.
Il messaggio di Brecht era politico; nel capitalismo la bontà pura non può esistere: dobbiamo corromperci per sopravvivere e le “anime belle” sono destinate a soccombere. Ma a me non interessa questo aspetto, quanto il fatto psicologico legato alle “buone” immagini di sé.
In fondo tutti questi esempi ci dicono che la bontà “pura” è, alla fine, una posizione perversa, malata, non rispettosa della realtà. E ci dicono anche che la vera bontà, come posizione, è destinata necessariamente a compromettersi. Qualcuno ricorda “Le mani sporche” di Sartre?
Non possiamo piacere a tutti, non dobbiamo piacere a tutti: se desideriamo questo siamo necessariamente destinati all’astrattezza, alla solitudine e alla schizofrenia (e, alla fin fine, anche al disprezzo degli altri).
La bontà è una posizione che assume dialetticamente su di sé ampie dosi di crudeltà e anche Proust rievoca, in qualche punto della sua opera (quale? Vattelapesca) , una persona, una governante credo, la cui bontà era segnalata proprio dal suo fare rozzo e sbrigativo.
Credo che faremo tutti un passo in avanti, come persone, se saremo in grado di vedere noi stessi e la nostra realtà come un grande gioco che mescola cose buone nelle cose cattive e viceversa.
E diventeremo grandi solo se saremo in grado di accettare su noi stessi il male che gli altri, necessariamente, ci attribuiranno.