Il concetto di “esistenza” ha per troppo tempo riempito le nostre bocche e le nostre menti. Ossessionati dall’assenza di fondamento nel quale ci rimanda continuamente il nostro esser-gettati, angosciati dall’orizzonte indefinito a cui ci rimanda il nostro continuo essere-progettuale ci siamo progressivamente dimenticati di quello che sta nel mezzo. La vita stessa.
Poco alla volta la nozione di esistenza, e le sue conseguenze operative, ha oscurato quella di vita; troppo vile, quest’ultima, per essere oggetto di una qualche aspirazione “alta”, troppo scandalosa nella sua eccessiva nudità, imbarazzante nel suo essere continuamente fuori posto, ingombrante nella sua semplice-presenza.
La lotta per esisitere è diventata una paradossale lotta contro la vita stessa, la nostra ricerca di senso è diventata un sistematico oblio e il viaggio verso la libertà un viagigo per allontanarci da noi stessi. Molta filosofia dell’esistenza è figlia di un inespresso (inesprimibile) desisderio di appropriazione. Una pulsione che condivide con molte altre folosofie, e che alla fine ci lascia stremati.
Ma oggi i figli di questa grandiosa ricerca ci chiedono il conto: lo chiedono al nostro corpo dimenticato, alla nostra attenzione ossessiva, alla nostra mente affollata, alle nostre emozioni controllate, alla nostra impronunciabile paura della morte.
Il grande pregio della filosofia orientale è di non essersi mai dimenticata della vita. E questo è, forse, uno dei motivi per cui oggi ci attrae molto più di ieri ed è oggetto di una riscoperta che ha più l’aria di un ritorno.
Su questo tema vi segnalo un bellissimo video di Ryosuke Ohashi sul confronto tra Heidegger e il buddismo. L’occasione è la discussione della nozione heideggeriana di “Gelassenheit” (abbandono). Il contesto è quello dele bellissime conferenze organizzate ad Asia.
Ecco il video.