Ci sono molti modi per capire quando una teoria è una buona teoria.
Una teoria è buona se riesce a spiegare in modo semplice ed unitario una massa enorme di fenomeni eterogenei (potere esplicativo delle teorie). Inoltre è molto buona se è capace di ampliare la gamma di previsioni che possiamo fare sui fenomeni futuri (potere previsionale delle teorie). Ma non basta: generalmente una teoria veramente buona è capace di ristrutturare l’intero campo dei fenomeni che descrive (potere ontologico delle teorie).
Insomma, dopo l’apparizione di una buona teoria è la nostra stessa realtà ad apparire diversa (pensate, tanto per fare esempi noti e vicini a noi, all’interpretazione dei sogni di Freud, alla teorie del linguaggio di Saussure o di Chosmsky, alla Teoria dell’Informazione di Shannon, alla teoria del calcolo di Turing, alla teoria della post-modernità di Lyotard e così via)
Che si rivelino, alla lunga, totalmente giuste o in parte sbagliate, la loro stessa formulazione riorienta gestalticamente la nostra esperienza delle cose.
Il potere della coda lunga
Quando una buona teoria appare sulla scena, dunque, abbiamo molti motivi per essere felici uniti a qualche comprensibile motivo di preoccupazione, legato per lo più alle derive e sovrainterpretazioni a cui la teoria stessa da luogo. E’ il caso della teoria della “coda lunga” di Chris Anderson.
Una teoria potente, alimentata da un’immagine altrettanto potente, ovvero quella strana curva che ormai abbiamo visto tante volte e che descrive il modo nel quale si distribuiscono i comportamenti delle persone in rete o, più in generale in ogni situazione dove domini l’abbondanza e non la scarsità di risorse. Anderson mostra come nei mercati in rete siano le nicchie a costituire l’ossatura del mercato e come la rete stia progressivamente polverizzando il mercato dei consumi di massa dominato dai media
mainstream.
Non entrerò nei dettagli della teoria (peraltro, del rapporto tra le intranet e la coda lunga ho già parlato
qui e
qui): la maggior parte dei frequentatori della rete la conosce a grandi linee; inoltre, quell’immagine è davvero capace, da sola, di esprimere in modo completo il senso di questa idea così affascinante
Potere euristico (e seduttivo) delle buone immagini.
Consiglio vivamente a tutti di leggere il libro: è un raro esempio di come si possa fare dell’ottima divulgazione unendo capacità comunicativa e rigore scientifico. La ricchezza degli esempi, la precisione dei dati, la vividezza delle immagini, la ricchezza delle metafore e la quantità di storie che Chris ci racconta sono davvero impressionanti e meritano la lettura di chiunque voglia capire qualche cosa di più sul nuovo mercato della rete e sui fenomeni che abilita.
Detto questo, vorrei modestamente spiegare (innanzitutto a me stesso) perché la teoria di Chris è un’ottima teoria del mercato in rete e una pessima teoria della cultura (esito al quale la teoria sembra approdare).
Culture e tribù
Leggendo il libro ho pensando al mio rapporto con i media di massa e con la “cultura di massa”. C’era qualche cosa che non mi tornava in tutto questo discorso. In fondo, mi sono detto, io, come molti altri, non mi sono mai sentito totalmente aderente alla mia cultura “mainstream”, qualsiasi cosa questo significasse. Anzi, ho sempre avvertito il disagio di una non-appartenenza e ho vissuto, come molti altri, una costante (e castrante) dialettica tra l’ebbrezza di una certa libertà e disinvoltura e la nostalgia della “normalità” e del “gruppo”. Ma l’arrivo delle “code lunghe online” non ha mitigato questo disagio, e non ha per nulla risolto la dialettica. Dove sta l’inghippo?
Oggi posso agevolmente scaricare la mia musica di nicchia, guardare i miei programmi di nicchia e incontrare altre persone che condividono questi interessi. Ma questa enorme disponibilità non costituisce affatto un passo in avanti verso la creazione di una nuova “sottocultura di nicchia”.
Certo la coda lunga strappa il velo di Maya che ci voleva tutti omologati nella fruizione degli stessi contenuti e svela che ciascuno di noi ha gusti più sofisticati e diversificati. Certo, in rete questi gusti diversificati trovano la loro dignità e il loro spazio, ma questo fa fare dei pass in avanti alle nostre identità e alle nostre appartenenze? Scopriamo di appartenere a tante diverse “tribù” e certamente mi iscriverò ai servizi online per guardare le puntate di “Spazio 1999”, “Il prigioniero” e vecchie interviste ai filosofi degli anni ’70. Ma continuerò a vivere con disagio il pranzo di Natale.
Il fatto è che la cultura di un gruppo, sfortunatamente, non si costruisce solo in base all’insieme ordinato e filtrato delle nostre scelte d’acquisto, non è la sommatoria dei nostri oggetti culturali di nicchia.
Forse la cultura è l’insieme delle nostre
prese di posizione rispetto ad un insieme eterogeneo di oggetti e comportamenti che “circolano” nel sociale, sia di nicchia che “mainstream”. Da “Fiends” alla religione cattolica, dal parlare a voce alta in treno al modo nel quale reagiamo ai lavavetri al semaforo, da Emilio Fede ai Dico, dal pranzo di Pasqua al Grande Fratello. Ed è nel senso complessivo che ciascuno di noi assegna questo insieme di cose che si esprime la nostra “cultura”, ovvero i meccanismi di appartenenza e di identità, che sono qualche cosa di molto diverso dalla “
comunità guardaroba” di cui parla Bauman e che, francamente, assomigliano molto alle microculture di cui parla Anderson.
Date un po’ di tempo a un gruppo di individui e questi costituiranno delle comunità. Date un po’ di tempo a queste comunità e queste costruiranno delle culture, ovvero dei meccanismi semiotici che diano senso a quello che le circonda. Oggi, peraltro, dopo la fine delle
grandi narrazioni, questo meccanismo è più potente e necessario. Essere Italiani non ci basta, ma nemmeno essere juventini o essere amanti della musica hip op. Abbiamo bisogno di storie, grandi e piccole, che diano senso al nostro agire. Storie che stiano dietro di noi, e
ci diano quel significato di cui sempre siamo alla ricerca.
Forse non ho capito il senso e le conseguenze del discorso di Anderson, forse sto travisando, ma paradossalmente, il mondo del “filtraggio collaborativo” descritto da Anderson assomiglia più alla dinamica dell’amicizia che a quella della cultura, E’, insomma., un meccanismo che riproduce più la dinamica delle relazioni individuali che delle relazioni collettive.
Gusti = cultura?
Credo che Anderson abbia risolto troppo in fretta l’equazione gusti = consumi = cultura. Personalmente, per riprendere un mio post precedente, ho vissuto un periodo nel quale l’ascolto di un cantautore come Claudio Lolli faceva parte di una certa cultura giovanile. Sia chi amava alla follia Claudio Lolli sia chi lo detestava a morte apparteneva, più o meno alla stessa cultura e io mi sarei sentito molto più affine a chi odiava Claudio Lolli che non a chi non ne aveva mai sentito parlare. Nel mondo delle aggregazioni online e dei filtri collaborativi queste due categorie di consumatori non si incontrerebbero. Nel mondo reale della costruzione condivisa di una cultura invece si.
Avere gli stessi gusti specifici, condividere una nicchia di consumo non significa ancora appartenere ad una cultura condivisa , a meno che questa nicchia non sia investita semioticamente nella dinamica delle relazioni sociali (pensiamo ai gruppi di acquisto sul cibo biologico).
Fine della macchinetta del caffé?
La prova del nove dei risultati discutibili di questa catena argomentativa sta nella pittoresca immagine della “boccia dell’acqua” (da noi si direbbe la “macchinetta del caffè”). Nel mondo delle code lunghe, per Anderson, saremo sempre meno legati a momenti come questo, che per l’autore sono il segno inequivocabile di una cultura di massa nella quale tutti siamo costretti a vedere e sentire le stesse cose: semplicemente, la frammentazione dei nostri comportamenti di consumo prosciugherà le occasioni di cui parlare in questi luoghi abbia un senso.
Ora, per quale motivo questa previsione ha un’aria cosi sbagliata? La ragione è che le micro-culture organizzative non si formano (solo) sulla base dei programmi televisivi che abbiamo visto la sera prima e i nostri gusti in fatto di programmi in prima serata non spostano le ragioni per le quali abbiamo bisogno costantemente di stabilire e negoziare la nostra gamma di simboli globali e locali che, tutti assieme, chiamiamo cultura.
Da una parte, dunque abbiamo il fruitore di massa, che condivide oggetti culturali massificati e che nel mondo delle code lunghe ritroverà i suoi gusti più “veri”. Ne sono convinto e Anderson ci ha spiegato benissimo la dinamica con cui questo avverrà. Elaborerà anche nuove appartenenze? Agirà nuovi comportamenti? Prenderà nuove posizioni? Ne dubito.
Dall’altra parte abbiamo il gruppetto di ragazzi della panchina che per anni vive in gruppo e che elabora nel tempo una propria cultura locale “forte”con la quale filtra tutto quello che avviene all’esterno, dall’11 settembre al Grande Fratello al caratteraccio del barista di quartiere. Perché le culture, e i meccanismi di appartenenza che veicolano, sono questioni serie, a volte sono questioni di vita o di morte. I ragazzi della panchina sono la “coda lunga” della cultura. E potete stare certi che non si sono ritrovati su Itunes.