La lettura di Wikinomics mi scatena parecchi pensieri. Uno di questi è legato al fatto che noi abbiamo un esempio concreto, nel nostro Paese, di open soruce cognitivo nei processi produttivi.
Questo esempio è stato studiato in tutto il mondo negli anni scorsi e, anche se può sembrare bizzarro, è all’origine del fortunato termine “post fordismo”. Mi sto riferendo come ovvio ai distretti industriali.
Leggete questo breve passo del grandissimo Enzo Rullani, tratto dal suo “La fabbrica dell’immateriale“. E poi ditemi se non vi suona stranamente familiare.
Se una grande impresa di abbigliamento deve prevedere il colore che andrà di moda quest’anno, il suo metodo di risposta al problema è quello tipicamente razionalistico, dello studio e comprensione ex ante. Si comincia a fare un certo volume di ricerche di mercato (da tenere ovviamente riservate), si consultano esperti e distributori, si sceglie una soluzione e si progetta una risposta corrispondente. A questo punto, sono passati mesi, il prodotto non è ancora sul mercato e i consumatori non hanno ancora avuto la ventura di vederlo o di sentirne parlare. Ma il futuro produttore è già fuori con qualche milione di euro di spese “preventive”. Se poi, una volta messa la soluzione trovata alla prova, ci si accorge di aver sbagliato, il milione è perso e diventa difficile immaginare di ricominciare daccapo. Comunque, se si decide di cambiare rotta, la cosa non si compirà in breve tempo.
In un distretto industriale le cose funzionano in tutt’altro modo. Prima di tutto non ci sarà un solo sperimentatore, ma cento, che andranno in ordine sparso e possibilmente all’insaputa l’uno dell’altro ad esplorare cento possibili strade (colori). Siccome ciascuno sa di poter adattare la soluzione inizialmente trovata, non ci saranno né ricerche di mercato, né grandi investimenti preventivi, né mesi di attesa perché la conoscenza emerga. Al contrario, usando le tecniche dell’apprendimento evolutivo, si andrà avanti senza copione e senza modello. Cento imprese proveranno, e una di queste avrà scovato (per caso o per intuito) la soluzione giusta. Non sono passati mesi ma giorni. E nessuno ha immobilizzato forti somme nell’esplorazione delle possibilità, avendo ciascuno soltanto “provato” una delle cento soluzioni. Una volta emersa la soluzione vincente, grazie al meccanismo della cooperazione involontaria, tutti saranno
in grado di sapere la risposta al problema in poco tempo e a basso costo. E potranno rapidamente adeguarsi.
Il risultato è che, se tutto va come deve andare, l’innovatore avrà speso poco, fatto presto ma avrà soltanto un lieve vantaggio (di settimane) nei confronti degli altri. Chi deve imitare, avrà anche lui speso poco (o niente), ma sa che non verrà tagliato fuori: la propagazione (involontaria) della conoscenza che serve basterà a tenerlo in gioco. Alla fine, gli investimenti e i rischi dell’esplorazione saranno limitati per ciascun concorrente, ma l’apprendimento realizzato da uno diverrà ben presto – con un lieve distacco – apprendimento di tutti (gli interni).
Nel distretto l’apprendimento avviene mediante una rete di imprese ciascuna delle quali ha la propria strategia e autonomia, ma ciascuna delle quali dipende dall’evoluzione dell’insieme per la produzione della propria conoscenza. E’ una rete cooperativa se si guarda alla funzione svolta, che mette i singoli apprendimenti in sinergia (spesso involontaria); ma è anche una rete competitiva se si guarda all’autonomia rivendicata da ciascuna impresa nel suo stare nella filiera.
Le due strategie – quella etichettata come cooperation e quella, canonica, della competition – in realtà coesistono, dando luogo ad un ibrido (co-opetion?) che consente alle singole imprese di crescere più velocemente e con meno rischi forzando in questa o quella direzione, a seconda delle circostanze, un rapporto che resta comunque multidimensionale.
Se vi interessa, l’intero capitolo del – bellissimo – libro di Rullani (Capitolo dal titolo “il territorio come mediatore cognitivo”) è scaricabile da qui.