Ci sono alcuni libri che ci illuminano, altri che ci scuotono, altri che ci irritano fino all’inverosimile, altri che ci annoiano a morte. E c’è poi una categoria di libri che lasciano il lettore esattamente dove lo hanno trovato, forse con qualche briciolo di perplessità appena avvertita.
Le tesi centrale del libro è che il sistema economico e il sistema dei Media sono in crisi e, così come sta nascendo un nuovo pensiero tra gli economisti di tutto il mondo fondato su un’altra idea dello sviluppo e della felicità, così sta nascendo un nuovo sistema di comunicazione tra le persone legato ai nuovi media, blogosfera in primis. De Biase vede in questi due fenomeni uno stretto collegamento, fondato sull’idea di dono, e impiega 190 pagine per illustrarcelo.
Nel farlo passa con disinvoltura dalla critica del PIL alla psicologia di Kahneman, dall’informazionalismo di Castells e Benkler agli studiosi della felicità, dai social network alla crisi dei media tradizionali, dall’epistemologia di Thomas Kuhn alla blogosfera.
Un’operazione di audace sincretismo. Riuscita? Eh, credo proprio di no.
Sarà la banalità inaccettabile con cui il tema della Rete e dei nuovi fenomeni emergenti vengono trattati, sarà la quasi totale mancanza di cifre e di fatti (ma non è questo che ci aspettiamo dai giornalisti?), sarà il modo quanto mai impressionistico con cui vengono passate in rassegna le posizioni di teorici dell’altra economia, degli studiosi a vario titolo interessati al tema della globalizzazione, di sociologi, epistemologi e premi Nobel.
Fattostà che il discorso di De Biase, lastricato di ottime intenzioni, finisce per rivelarsi poco più di una chiacchiera da bar intorno ad alcune buone letture che ciascuno di noi ha fatto, sta facendo o farà.
Il PIL che non basta più a descrivere le nostre vite, lo sviluppo come retorica ambigua, la felicità che torna al centro del dibattito economico mondiale, i fini che contano più dei mezzi, Google che premia sempre i migliori, i blogger come nuovi eroi che arricchiscono la Rete, i media tradizionali in crisi, l’immancabile cluetrain Manifesto, l’irrazionalità dei comportamenti dei consumatori, la ricerca del senso nel nuovo capitalismo, la mano invisibile deve essere regolata…Non manca proprio nulla.
E tutto si chiude in uno sconfortante esempio di neo-conformismo condito da millenarismi francamente fuori luogo.
Tra apocalittici e integrati, De Biase inaugura una terza via: l’apocalitticamente integrato: nel nuovo Mondo che descrive (o meglio che lascia intravedere) non c’è più spazio per i dubbi, e le voci critiche cessano improvvisamente: dimenticato lo strapotere delle grandi Corporation che oggi fanno il bello e il cattivo tempo sulla Rete sulle spalle dei contenuti generati dagli utenti; eclissati sempre più frequenti e imbarazzanti casi di inciuci tra questi stessi giganti e i governi locali assetati di censura; dimenticata la sempre più problematica questione della privacy (e del ben più importante principio di trasparenza asimmetrica, fondamento degli equilibri democratici), da sacrificare senza ombra di esitazione in nome del sacro network; dimenticato il sempre più eclatante digital/cultural divide che impedisce al 99 per centro della popolazione del mondo di partecipare in modo attivo (nel senso di De Biase) alla Rete (e quindi di che cosa stiamo parlando?); dimenticata la situazione, in certi casi imbarazzante di una blogosfera (in special modo italiana) per molti aspetti autocentrata, autocelebrativa, competitiva e poco propensa (altro che economia del dono..) a quel dialogo aperto di cui si vagheggia a piene mani; e, soprattutto, dimenticata la strutturale e ormai dimostrata incapacità della blogosfera stessa di costituirsi come nuovo soggetto di un cambiamento strutturale e di svincolarsi realmente dai media Mainstream.
Ma siamo davvero sicuri che la Rete ci salverà dall’egemonia del PIL? L’intenzione del libro è quella di dimostrare che è così, ma quello che esce è piuttosto una specie di favola della buona notte nella quale blogosfera, utenti, economia del dono, terzomondismo, teorici della decrescita, Google e OCSE, Taxisiti di New York e Amazon si tengono per mano ridendo allegramente.
Il risultato, lo dico a malincuore e con reale rammarico, è un pane fatto di briciole pescate tra fatti e gli autori tra i più noti del panorama nazionale e internazionale (non li cito per pudore), autori e fatti che qualunque addetto ai lavori conosce per dovere d’ufficio e che persino i non addetti ai lavori hanno in qualche modo masticato. Unico ricordo della matrice giornalistica di De Biase resta lo stile sincopato, quello che usa poche virgole e detesta i due punti per gettarsi. A capofitto. In. Un’orgia. Di punti fermi. Che detto per inciso, è il peggior regalo stilistico che il giornalismo di oggi lascia ai suoi lettori (Ilvo Diamanti docet). Il tutto condito con personalissime perle di saggezza di questo tenore:
In una fase di grandi cambiamenti è possibile che la rappresentazione mediatica e l’autorappresentazione della società si allontanino e appaiano sempre meno coerenti. E le domande, i dubbi, le paure, si moltiplicano. Per quanto si cerchino certezze, una questione latente sempre più importante pervade ogni descrizione sociale: che cosa ci accadrà, staremo peggio o meglio, come sarà il futuro?
Verrebbe da rispondere: eh, signora mia, che tempi, che tempi…
Forse potremmo chiederci quanta lucidità intellettuale siamo disposti a sacrificare sull’altare della promozione, nel nostro Paese, della cultura della Rete e della cultura della decrescita, ma soprattutto fino a che punto questa promozione deve spingersi sul pericoloso crinale della semplificazione e, in definitiva, della predica fuori luogo.
Credo che De Biase ci dimostri in modo quanto mai cristallino (e devo dire, nel suo caso, sorprendente) l’esistenza di una nuova “retorica della Rete” che, come tutte le retoriche, racconta una sua storia che si perfeziona nel tempo fino a bastare a se stessa. Non è questo che ci aspettiamo. Né dai maitre a penser né dai giornalisti.
È un vero peccato: un’altra occasione sprecata per fare della divulgazione seria nel nostro Paese, una divulgazione, cioè, capace di prendere le distanze dai clichè dominanti, in grado non scadere in vuoti tecnicismi e soprattutto in grado di dare una visione che sappia collegare in modo critico passato, presente e futuro.
In questo caso la mancanza di Franco Carlini si fa sentire. Eccome.