Forse le cose di questo mondo potrebbero essere divise in due classi: le cose che appartengono al senso della memoria e quelle che appartengono al senso dell’oblio. E noi, come esuli, come eterni apolidi, ci muoviamo nel mondo pendolando senza fine tra queste due condizioni, condannati, come eroi tragici, a ricordare e a dimenticare allo stesso tempo.
Alcuni di noi vogliono ricordare senza fine da dove vengono, altri vogliono dimenticare dove vanno, e viceversa. Vogliamo dimenticare incessantemente chi siamo, oppure ci aggrappiamo ad una identità che esiste solo nella nostra memoria. E i nostri artefatti seguono docilmente questo gioco incessante di luci ed ombre destinato svelare e a nascondere. Scrivamo, parliamo, facciamo una cosa che ci rassicura, ci ritroviamo presso di noi. Ci riconosciamo nei nostri gesti. E, a volte, coltiviamo un fantasma. Oppure fuggiamo, ci confondiamo nella folla, nell’incessante brusio del “si dice” e in questo oblio, in questo ricorrersi assurdo della chiacchiera arriviamo, magari, a riconoscere, un giorno, finalmente noi stessi.
Paradossi. Non possiamo smettere di ricordare come non possiamo smettere di dimenticare, perché solo ricordando sappiamo chi siamo e solo dimenticando possiamo vivere. Vivere, sapere, ricordare. Quando questa giostra finirà, quando le nostre azioni, in questo incessante gioco di specchi, ci restituiranno finalmente la nostra immagine, sapremo riconoscerla? O, più probabilmente la getteremo via come un inganno, un errore, una falsa pista? E dove saremo allora?
Io non voglio dimenticare nulla e tuttavia sento che mi sto perdendo. Ma ho ancora capito se sia giusto così.