“Nessun dato è completamente certo, e si può sostenere che non ci siano dati davvero indipendenti dalla teoria. Nonostante questo, il requisito fondamentale per l’uso scientifico di qualsiasi dato non è che esso debba essere assolutamente certo e indipendente dalla teoria, ma solo che sia più affidabile della teoria che serve a confermare o confutrare”
Questa bella citazione è tratta Dan Sperber, uno dei più eccentrici, originali e “scomodi” antropologi contemporanei (se volete approfondire il suo pensiero….)
In realtà questa citazione mi interessa meno per la sua specifica posizione riguardo ai fatti scientifici che per le indicazioni che sembra lasciare intravedere rispetto al lavoro di chi manegga le informazioni e il sapere (giornalisti, insegnanti, intranet manager, professionisti che fanno il Powerpoint, eccetera eccetera.
Personalmente ho sempre pensato e agito con la piena consapevolezza che “i fatti puri” non esistono (in buona compagnia peraltro). Tuttavia molti di noi lavorano quotidianamente con le “informazioni”, o perché le trasmettono, o perché le ricevono, o perché le elaborano. Lavoriamo con le informazioni e spesso non ci facciamo domande rispetto al loro statuto, e tantomeno rispetto al loro rapporto con la conoscenza in generale. Non abbiamo tempo, e queste sono pippe da filosofi.
E’ tutto vero, ma dovremmo essere almeno un po’ coscienti che l’informazone, ovvero l’ogggetto (inindagato) con cui abbiamo a che fare non è mai un “dato”, ma una sua opportuna rielaboraizone. Ci tengo a precisare che “rielaborazione” non vuol dire “manipolazione” : rielaboro i dati anche quando faccio “l’informazione all’inglese”, obbedendo ad un gioco linguistico che mi dice: “dividi i fatti dalle interpretazioni”.
Purtroppo è lo statuto di “fatto” ad essere ambiguo (basterebbe la semplice constatazione che usiamo un linguaggio per descriverlo e qui casca molto più di un asino). Insomma, la nozione di informazione eredita questa ambiguità di conseguenza. Insomma il discorso è molto lungo.
E pensate che questo è l’aspetto più semplice della questione: perché è vero che le informazioni, in tutta la loro intrinseca ambiguità, non fanno ancora “conoscenza”. Purtroppo la conoscenza richiede una ulteriore integrazione nella nostra testa delle informazioni (integrazione fatta di filtri, traduzioni, rielaborazioni, eccetera).
Alla fine di questo percorso possiamo dirre di avere una “conoscenza”. Ma non è finita: questa è ancora davanti a noi. CI guarda, la nostra conoscenza, come un oggetto esterno e alieno e noi ci rapportiamo a lei, la utilizziamo come un attrezzo.
E volte capita che la nostra conoscenza non stia più davanti a noi. Non riusciamo più a vederla perché si è messa dietro di noi e in qualche modo si confonde con la nostra ombra, si mescola con la nostra anima.
Quando questo succede abbiamo acquisito un po’ di saggezza.