Variazioni sulla depressione (mettetevi comodi che è lunga)
Per il buon Heidegger, come noto, il nostro rapporto primario con il mondo è innanzitutto pratico: noi siamo gettati-nel-mondo, e il rapporto di utilizzabilità è quello che principalmente caratterizza il nostro vivere quotidiano, il nostro entrare in contatto con le cose. Solo in seguito a qualche tipo evento questo rapporto diventa teoretico.
La conoscenza, la consapevolezza dunque, sono un precipitato, una conseguenza di un momento di rottura del nostro abituale tran tran quotidiano (l’ultimo link è assurdo, lo so…)
E quali sono questi momenti di rottura? Potremmo decidere anche noi di chiamarli, seguendo l’altisonante linguaggio di Heidegger, Essere-per-la-morte, oppure potremmo accontentarci di chiamarli con un nome più popolare e prosaico: depressione.
Da che io mi ricordi sono sempre stato depresso. Per la maggior parte del tempo questa era semplicemente una condizione che vincolava e determinava i miei comportamenti; in altri periodi della mia vita è stata anche oggetto di una qualche riflessione. Anche oggi sono depresso, e anche oggi non posso fare a meno di chiedermi per quale motivo, al di là dell’innegabile sofferenza di questo stato, al di là di questa mia innegabile sofferenza, senta una sorta di maggior consapevolezza delle cose. E’ come se il dolore potesse veramente, come voleva Heidegger, fare acquisire un certo spessore, una certa acutezza di sguardo, una capacità di guardare la nudità delle cose
Distacco. Un distacco non privo di sofferenza, certo, ma anche pieno di conseguenze. Come se potessi finalmente fare spazio al Mondo, del quale fino ad un momento prima ero semplicemente parte. Se sei parte del mondo non lo puoi contemplare: puoi solo accontentarti di viverlo.
Io e il mio amico, all’epoca,lo chiamavamo “il premio per essere depressi”. Figuriamoci. Filosofico cinismo di giovani depressi (ad ogni modo mi rincuora il fatto di non aver trovato su Google nessun riferimento per la frase “premio per essere depressi”.)
Lo psichiatra Eugenio Borgna, in un attacco di heidegggerismo acuto, sembra confermare in parte questa mia esperienza quando scrive, in un suo saggio: “Non si può non risottolinare drasticamente come l’esperienza malinconica non sempre spiana e svuota, prosciuga e inibisce, l’interiorità e l’immaginazione; ma, anzi, talora agisce come una dolorosa frustata sulla vita emozionale […] la sofferenza che scaturisce dal vissuto della malattia, dilata vertiginosamente la profondità degli abissi che si aprono nella conoscenza della propria soggettività e della propria esistenza”.
Amen.
Dall’altra parte Dostoevskij (credo ne “I demoni”), con il suo consueto acume nel mettere a nudo l’anima degli uomini, diceva che la depressione dona solo un’illusione di profondità, che avvolge in modo temporaneo le persone superficiali facendo loro credere di avere conquistato un nuovo livello di consapevolezza che sparirà in breve tempo. Illusi.
E credo che anche Thomas Mann, da parte sua, prenda un po’ in giro in nostro Heidegger quando, nella Montagna incantata, mostra un paziente al quale restano pochi giorni di vita che se la spassa allegramente come se niente fosse. Altro che Essere-per-la-morte: la consapevolezza non è sempre sopportabile e l’autenticità non è certo una condizione paradisiaca.
E allora chi ha ragione? Borgna e Heidegger o Dostoevskij e Thomas Mann? Beh, io propenderei per i primi, anche se molto spesso credo di aver agito come il personaggio di Dostoevskij. Ma forse penso questo perché oggi sono depresso.
Perché siamo depressi? Un tempo credevo si saperlo, oggi non ne sono più così sicuro. Certo, posso dire che sono depresso perché mi sento solo, il mio passato mi perseguita, mi sento inadeguato e tutti sono migliori di me, le cose hanno perso il loro senso abituale, ho la chiara consapevolezza che non riuscirò mai ad essere felice, oppure ho un livello basso di serotonina.
Ma allo stesso modo potrei dire che sono depresso e quindi mi sento solo, il mio passato mi perseguita, eccetera. A dire il vero potrei anche dire che sono depresso in quanto mi sento solo, ecc.
In ciascuno di questi casi, il fatto che abbia senso considerare queste ragioni indifferentemente come cause, effetti, o espressioni della depressione mi dice solo che queste ragioni non hanno alcun valore esplicativo.
Ma oggi non mi interessano le cause della depressione ma i suoi effetti; non mi importa del suo contenuto, che conosco così bene, ma, per così dire, della sua forma.
Sartre considerava l’angoscia come il sentimento che si accompagna al senso della propria libertà, e la nausea come il sentimento che si accompagna al senso della propria contingenza. La depressione, forse, è il sentimento che si accompagna al nostro temporaneo distacco dal mondo.
Il sentimento della contemplazione.
Platone non aveva un termine che equivalesse al nostro “depressione”, e neanche Kant o Husserl, ma tutti, a modo loro, si sono occupati di come arrivare a contemplare la verità, di come coglierla e di quali effetti produca. Credo però che nessuno di loro si sia mai preoccupato di dirci quale dovrebbe essere il sentimento che si accompagna a questo “coglimento” .E temo proprio che questo sentimento sia la depressione. Ora che ci penso, credo proprio che una buona metà della filosofia occidentale sia figlia della depressione. Perché non ci ho mai pensato prima?
Capito Husserl? Per fare l’epoché fenomenologica dobbiamo essere depressi, se no non viene tanto bene.
Capito Kant? Per contemplare in maniera disinteressata la bellezza dobbiamo essere depressi, se no essa sarà solo una “misera” promessa di felicità.
Capito Platone? (che per la cronaca scriveva cose come questa)? Per voltarci dalla caverna e guardare il sole della verità dobbiamo essere de-pres-si, perché a nessuno verrebbe mai in mente di imbarcarsi in una “seconda navigazone” se è già felice nella prima.
Perché non me lo avete detto? Avrei voluto poter scegliere.
La depressione può diventare cronica, come sappiamo; in quel caso diventa una patologia seria. Il che è come dire che non possiamo restare troppo fuori dal Mondo, che non possiamo distanziarci a contemplare le essenze troppo a lungo.
Le essenze non amano essere contemplate per troppo tempo e ciascuno di noi di noi è destinato ad assorbirne solo una piccola dose, in particolari momenti.
Quello della verità, forse, è veramente un mondo inabitabile.
p.s Confesso di aver scritto questo post anche pensando a Clelia, mia assidua lettrice che deludo costantemente riservandole in genere, ahimé, solo verbose pippe sulla intranet.