Il blog è un oggetto fatto per agevolare la scrittura. Ma la scrittura è sempre una sfida: richiede consapevolezza, pianificazione, rimuginio e disciplina. Memoria e sensibilità. Non è mai un atto puro e istintivo (posto che esistano atti puri e istintivi), ma sempre il frutto di un accordo magico e sempre stupefacente tra diverse parti della propria mente, un atto di generosità verso se stessi prima che verso i propri lettori.
Questa premessa noiosa e inconcludente mi serviva solo per segnalarvi un breve post di Toby Ward che si chiede perché, in genere, gli impiegati ci pensino su due o tre volte prima di cominciare a scrivere sui blog che le aziende mettono a loro disposizione. Secondo Ward l’impedimento più forte è legato proprio alla sfida che la scrittura ci mette davanti, e le persone che lavorano hanno già un sacco di grane per doversi occupare anche di questo.
Per questo motivo, come ho detto più volte, l’apertura indiscriminata di un-blog-per-ogni-dipendente è sempre una scelta rischiosa, a meno che non siate un’azienda che riesce a tollerare i fallimenti o le cose riuscite a metà. Qualcuno aderirà perché la cosa lo stuzzica, qualcuno lo farà perché gli risolve dei problemi, ma la maggior parte non si metterà a scrivere così, perché il blog è facile da usare. Li capisco.
Che fare allora? Rinunciamo ai blog interni? Manco per sogno. Quello che a cui dobbiamo dire addio è solo al sogno che chiunque abbia qualcosa da dire e voglia farlo nei modi prescritti dai blog. In azienda ci sono molte situazioni in cui i blog possono venire in aiuto: condivisione dei progetti, aggiornamenti specialistici, news, richieste feed-back e così via. in questo caso la sfida della scrittura diventa la sfida stessa del lavoro, ed è un campo in cui è più difficile tirarsi indietro.
Se dovete progettare una strategia di uso dei blog, quindi, partire dai singole persone e da singoli problemi, non provate a sparare nel mucchio. Quattro o cinque blog che fanno bene il loro lavoro sono molto meglio di quattro o cinquecento che languono tristi e sconsolati come bottiglie sul piazzale una volta che il concerto è finito.